Ho Bevuto una Lattina di troppo (di Massimo Petrucci)

Sto leggendo la raccolta di racconti di Massimo Petrucci (scopri chi è www.massimopetrucci.it). Mi ha particolarmente colpito il racconto "Caffè Freddo", che vi propongo di seguito.

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Caffè freddo


Morbide ombre sul tavolo, posate disordinate e piatti di una cena ormai andata. Un bicchiere mezzo pieno di vino, l’altro vuoto. Una risata e poi il silenzio.
Dopo qualche istante, “Ma dimmi la verità, cosa ci fai qui stasera?”
“Perché me lo chiedi?”
“È una vita che non ti fai vedere... Scompari per mesi... Nemmeno una telefonata.”
“Non amo il telefono.”
“Tu non ami. È diverso...”, poi si versò del vino dalla bottiglia quasi vuota. “Te ne verso?” ed accennò un mezzo sorriso di chi già conosce la risposta.
Lei avvicinò il bicchiere, senza parlare.
“Cosa c’è? Sei rimasta senza parole?” la incalzò.
“Cambierebbe qualcosa ciò che potrei dire?” sorseggiò lentamente.
“Andiamo sul divano, staremo più comodi.” Suggerì alzandosi.
“Il divano è pericoloso. Lo sai.”
“Correrò il pericolo.”
Marco mise un CD, Janis Joplin iniziò subito a cantare un’amara Summertime, al che lei sorrise, accavallò le gambe aggiustandosi la gonna e disse: “Mi piace che non dimentichi.”
“È sempre la tua preferita, no? Tu sei un po’ come lei.”
“In che senso?”
Marco stava per rispondere con una bella frase ad effetto, poi si fermò, si sedette al suo fianco e la fissò. Lei era nei suoi occhi ed un istante prima di cedere lo sguardo, disse: “Vuoi baciarmi?”
Lei lo fissò.
“In onore dei vecchi tempi.”
“E dopo?”
 “Non mi interessa, la vita non è per sempre.”
Un attimo dopo stavano facendo l’amore.

Lei dormiva e Marco guardava il soffitto. Sapeva che dopo qualche ora si sarebbe alzata, avrebbe preparato il caffè, lo avrebbe versato in una tazzina per sé e in un’altra per lui, ma sapeva anche che non gliel’avrebbe mai portata; come sempre. L’avrebbe lasciata sul tavolo, solitaria e fredda. Poi lei sarebbe andata via. Come sempre. Questo era il dopo che ogni volta lei gli lasciava prima di sparire.
L’orologio digitale segnava le 2:55 del mattino. Marco era in cucina, era buio, a memoria aprì il mobiletto dove teneva il caffè, prese il barattolo e lo poggiò sul bordo del lavandino; prese la caffettiera, riempì il serbatoio fino alla valvola, mise l’imbuto, il caffè e chiuse stringendo forte aiutandosi con uno strofinaccio. Accese il fuoco ed attese. Ritornò nella camera da letto e la guardò: sembrava felice e se ne compiacque. Rientrò in cucina, si sedette sulla sdraio che teneva fuori al balcone e guardò stelle indifferenti, poi sentì che il caffè iniziava a salire, abbassò la fiamma ed attese. Spense, da un mobiletto basso prese due tazzine, mise lo zucchero, mezzo cucchiaino per lui e due cucchiaini per lei che lo amava dolce, mescolò lentamente e spostò le tazzine sul tavolo, mettendole vicine. Ruotò i manici finché non furono in posizione diametralmente opposta.
Osservò per essere sicuro che tutto fosse perfetto e lo era. Mancava solo un’ultima cosa: aprì il gas al massimo e poi tornò a letto, al fianco di lei che dormiva felice, per sempre.
fine
La suggestione per questo breve racconto è venuta fuori mentre ascoltavo Vasco Rossi con la sua “Va bene, va bene così”. Era quasi l’alba, dovevo partire per Roma. Era un periodo di quelli che vanno così, in cui i ricordi ti tirano agguati improvvisi. La letteratura serve anche ad esorcizzare le angosce.


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Grazie Massimo.

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